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Sindrome Cinese?

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di Angelo Pugliese- Tra la morte improvvisa dell'ex primo ministro riformista e la visita a sorpresa del ministro degli esteri di Pechino da Biden, i rischi e le opportunità del terzo mandato di Xi Jinping

Quando è cambiata la politica cinese? Qualcuno potrebbe dire che Xi Jinping ha preso le sue decisioni verso il “mandato a vita” tra il 2019 e il 2020, quando da Wuhan partì una epidemia che poi divenne rapidamente pandemia, quella del Covid. Altri potrebbero dire che l'avvento di Donald Trump alla Casa Bianca sia stata la goccia che ha fatto  traboccare il vaso della Città Proibita. 

La realtà è che la politica cinese non cambia, non almeno con la velocità che noi occidentali vogliamo attribuire, in particolar modo nelle democrazie, ai cambiamenti epocali. La politica cinese cambia rimanendo a prima vista ferma, ma di fatto in continua mutazione. 

Xi Jinping è il frutto di questa continua mutazione, di questa necessità del Sistema Cinese di riuscire a superare la fase 1 nel suo ingresso nel contesto geopolitico mondiale, attraverso il ruolo di “Fabbrica del mondo” e di “Capitalismo di Stato” per arrivare alla fase 2, quella in cui la Cina inizia a delineare la mappa del planisfero in funzione del suo ruolo centrale come Principale Potenza del Pianeta.

 

Perché così si vede L'establishment cinese che è dietro a Xi Jinping e che è oramai composto dai suoi fedelissimi: la Principale Superpotenza del Pianeta.

Nel 1979, il regista Jeff Bridges, aveva girato “Sindrome Cinese”, un film in cui immaginava il rischio della fusione del nocciolo  di un reattore di una centrale nucleare in California tale da fondere tutto fino ad arrivare in Cina, dall'altra parte del globo.

Oggi la vera “sindrome cinese” non è rappresentata dal rischio di fusione del nocciolo di una centrale atomica, ma dal fatto che questo “mandato a vita” di Xi Jinping,  ( vera anomalia nel compassato e preciso sistema di ricambio politico del Partito Comunista Cinese, che vedeva ogni 10 anni un nuovo Segretario-Presidente) possa subire mai come prima gli effetti di questo ruolo così preponderante  della Cina nella politica mondiale senza saperlo controllare perfettamente.

Da qui la difficile gestione dell'emergenza covid, che a livello interno aveva provocato qualcosa che si stava avvicinando a delle rivolte popolari o i rischi di un default economico determinato dalle speculazioni immobiliari dove lo Stato continua a farsi garante dei debiti, ma che rischiano di diventare un pericoloso “nocciolo in fusione” della Macchina Economica di Pechino.

Non si può non sottolineare l'azzardo con cui Xi sta trattando la questione dei rapporti con il Mondo Occidentale, per via di tre scenari ora aperti: 1) Ucraina e Russia 2) Taiwan e 3) Il ruolo in Medio Oriente.

La Cina continua a riconoscere a Putin e alla sua idea di Russia imperiale uno status di “normalità” che oramai è davvero difficile da sostenere a lungo termine. Su Taiwan, al di là delle schermaglie verbali e di qualche volo aggressivo sui cieli di Taipei, vi è la coscienza da parte di Xi di non poter davvero rischiare un escalation nel Pacifico dove comunque uscirebbe gravemente danneggiata mentre sulle modalità con cui Pechino vuole dire la sua da Teheran a Tel Aviv, passando per Ryad, Damasco, Baghdad e Gaza al di là delle parole facilmente “terzomondiste” che il PCC ha sempre usato in momenti di frizione tra Israele e Paesi Arabi, non vi è la capacità militare di poter dire la propria in quel quadrante.

Da qui ora la necessità di Xi di dover ritornare alla politica del dialogo serio con gli Stati Uniti. In particolar modo con questa amministrazione, guidata dal suo “vecchio amico” Joe Biden, con cui ha avuto la frequentazione  migliore come pari quota nel periodo in cui Xi era il vice-presidente e lo era anche l'attuale presidente democratico.

Va inquadrata in tal senso, la visita ( non inaspettata ma minuziosamente preparata) del suo ministro degli esteri WangYi a Washington dove ha avuto modo di incontrarsi con il suo pari grado americano, Anthony Blinken e poi con lo stesso Biden, per lanciare un messaggio improntato a miglioramento dei rapporti che si può in questa frase espressa in un comunicato stampa:"Cina e Stati Uniti hanno bisogno di dialogo. Dovremmo riprendere il dialogo e quello che ci aiuta di più è approfondire il dialogo a e avere un dialogo a tutto tondo. Mediante il dialogo, aumenteremo la comprensione e ridurremo le incomprensioni e i giudizi sbagliati".

Dialogo uguale Stabilità dei rapporti e condivisione di cui si cerca un riconoscimento ufficiale del ruolo di Superpotenza del Pianeta. Ovviamente nella visione cinese, della Principale Superpotenza.

Ma a livello interno non può non far pensare qualcosa di anomalo nella vicenda politica cinese l'improvvisa morte per infarto dell'ex primo ministro di XI, il “riformista” Li Keqiang a Shangai, a 68 anni lo scorso 26 ottobre, che avviene dopo ben 3 sostituzioni eccellenti nel governo cinese, nei dicasteri della Difesa, Esteri e delle Forze Armate. Ovvero di colui che era l'erede designato di Hu Jintao e avrebbe dovuto prenderne il posto nel 2012, se le cose fossero andate in maniera diversa.

La morte di un leader riformista nella Cina Comunista è sempre un dossier difficile da gestire. Quando accade vi è sempre un motivo e soprattutto un palco per chi ha qualcosa da dire contro chi governa a Pechino. Anche questa morte rischia di esserlo e non va sottovalutato questo aspetto.

Per concludere: la politica cinese cambia impercettibilmente ma cambia. Anche in questo momento. Rimane da comprendere la direzione del cambiamento.

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